“Volevo esprimere il mistero della vita e della morte. L’immortalità. E innalzare un inno all’amore”. Così Aleksei Fedorchenko racconta “Ovsyanki”, ultimo lavoro che segna il ritorno del regista russo sul grande schermo. Tradotto in inglese col titolo “Silent souls” (“ovsyanki” significa zigolo, passero molto diffuso in Russia e spesso scambiato per un canarino), tratto da un racconto di Aist Sergeyev, “The Buntings”, apre una finestra su un mondo antico e dimenticato, quello della cultura merja, antica tribù ugro-finnica del lago Nero, nella Russia centro-occidentale, che nonostante sia scomparsa da oltre quattro secoli, assorbita dal più radicato ceppo russo, conserva tuttora alcuni suoi rituali tradizionali e le tracce della sua lingua e della sua cultura nel territorio che un tempo la ospitava, i cui fiumi portano ancora nomi antichi e sconosciuti.
Alla morte della moglie Tanya, Miron, un “uomo che è ormai al di là dello specchio”, chiede a Aist, suo migliore amico, di accompagnarlo in un viaggio sulle tracce dell’antico popolo Merya per compiere il rito tradizionale di cremazione dei defunti. Insieme a loro due zigoli in gabbia, che sono, insieme a Aist, voce narrante della vicenda, testimoni di un viaggio in cui la scoperta dei segreti che si annidano nell’intimità di una coppia si interseca alla riscoperta di un intero popolo. Continuando la sua personale ricerca sulle etnie dell’ex URSS iniziata con “Children of the white grave”, Fedorchenko fa rivivere fantasmi dimenticati, che emergono e si rianimano nei paesaggi suggestivi e silenti di una terra senza tempo, per riportare alla luce i resti di un popolo saggio e raffinato, che continua a vivere nel ricordo dei posteri.
Rosa Corsi