In questi giorni si sta svolgendo – cominciata il 13, durerà fino al 19 ottobre – la venticinquesima edizione della Settimana della Lingua italiana nel mondo, a titolo Italofonia: lingua oltre i confini. L’evento nacque nel 2001 e da allora si ripete annualmente, consistendo il tema nell’uso della lingua ora nella letteratura o nel cinema, ora nella musica, ora nella scienza, ora nelle tendenze espressive giovanili o nell’italiano su internet. L’organizzazione si deve a una fitta schiera di istituzioni, da ambasciate e consolati e ministeri a Crusca, Treccani e Società Dante Alighieri, per citarne alcune; e gode dell’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica. Quest’anno, nel programma, svariati eventi in Sudafrica, Madagascar e Namibia.
L’iniziativa è pregevole: alla lingua non si darà mai troppa attenzione. L’italiano sembra soffrire oggi di tre mali: l’inadeguatezza all’epoca, la concorrenza dell’inglese, la burocratizzazione.
Il primo problema deriva dalla preponderanza dei mezzi di comunicazione digitali nei processi della società: in Italia tutto ciò che concerne internet non è in italiano. In generale, le categorie esistenziali, politiche, sociali – diciamo in breve culturali per toglierci il pensiero – da noi sono antiche. L’italiano funziona bene per parlare di religione, di aristotelismo, di letteratura cavalleresca, di pittura rinascimentale; ma il mondo contemporaneo non se ne fa molto di questi argomenti. Di fronte al capitalismo di borsa, alle valute digitali e agli algoritmi dell’intelligenza artificiale, il lessico italiano è come un cabrio con gomme estive su uno sterrato ghiacciato: non ce l’hanno progettato, nessuno ha pensato di adattarlo, ed è prevedibile che s’impantani o finisca testacoda.
Il secondo punto solo in minima parte è conseguenza del primo. Oggi l’Italia è di fatto bilingue e l’inglese è ovunque. La prima spiegazione è facile: dal secondo novecento è l’America a dettare il ritmo della vita nel mondo occidentale. Certo, l’industria, la televisione, il cinema, la musica, il giornalismo, la tecnologia sono da qualche decennio prevalentemente americani; e quand’anche non si credesse alla vitalità culturale e sociale degli Stati Uniti, bisognerebbe comunque ammettere che la potenza economica e i mezzi materiali permettono ai prodotti della loro cultura una diffusione impareggiata. Ma poi, ad esempio, c’è che la politica si svolge oggi in gran parte nell’ambito dell’Unione europea – o in collegamento ad essa -, e nell’Unione per forza di cose ci si serve dell’inglese come lingua comune. Stavolta è ancora un’altra versione di inglese: nata negli uffici della burocrazia e intrisa di latinismi e concetti della nuova Europa dopo Maastricht e Lisbona. In ogni caso non si tratta di italiano.
Il terzo problema è più complesso. La sua forma generica – che potremmo chiamare della proliferazione dei gerghi e dei dialetti – si deve al fenomeno, semplice e radicale, dell’assimilazione. Il gruppo in concreto e in astratto, vale a dire i singoli in carne ed ossa e la struttura che li circonda di tradizioni e convenzioni e modi di fare, esercita un influsso irresistibile sull’individuo; e non è tanto che lo renda uguale a sé di mano propria, ma spesso gli fa desiderare di partecipare a tale uniformazione. È un fenomeno che coinvolge parimente gli studenti di giurisprudenza e i commentatori calcistici. Senza contare che consuetudini particolari si instaurano sempre tra chi condivide certi tratti di vita: così i modi di dire di un ufficio o di una famiglia. Sotto questo rispetto non sembra possa esistere una soluzione; e neppure la vorremmo. Ma nella società moderna, la dialettica tra frammentazione e unità, costante in tutte le lingue, si schiaccia verso la prima per la tendenza alla specializzazione: di tutto si fa una scienza, ogni scienza si divide in ambiti, ogni ambito si compartimenta e ogni compartimento si subcompartimenta. Di ciò si è già parlato a lungo nel novecento. Oggi il fattore differenziale, di nuovo, è internet: la frammentazione, nella forma moderna delle scienze e in quella eterna del gruppo, subisce un aumento esponenziale e si fa più effimera che mai. La situazione è questa: la lingua comune è gravata di migliaia di dialetti e correnti linguistiche in continuo rinnovamento, e anche per questo, trovando sempre meno spazio e attenzione, claudicando per stare al passo, si ottunde, si impoverisce, inselvatichisce. Ma noi chiamiamo il problema burocratizzazione perché di tutti questi aspetti quello peggiore è l’irrigidimento volontario di certi soggetti – politici, amministratori, giornalisti, cultori di scrittura a vario titolo – in espressioni imbarazzate, goffe, ambigue, brutte senza bisogno. Sono ambiti che per la vocazione stessa quale alla democrazia quale al bello mal sopportano questi vizî.
Si vede che la lingua vera, spontaneamente precisa ed efficace cede il passo a formularî, storture, raffazzonamenti e ambagi. Le grafie sono intercambiabili perché non le si collega alla radice della parola – staccando così la forma dalla sostanza; gli accenti sono casuali, persa che si è la percezione dell’etimo; i significati sono alterati, confusi, traslati secondo il suono o fortuite analogie. Si dice scientificamente per scientemente, si usa ancorché non come concessiva ma per fini improbabili, e così in un ricorso all’infinito. Si insiste – questo è il tratto più fastidioso – sempre sugli stessi banali concetti con le stesse parole sbagliate. Si potrebbe forse passare sopra al problema, se non fosse che la parola è un tutt’uno col pensiero, e chi parla male è come uno specchio rotto: non riflette granché bene.
- Leandro Stroppa
Foto tratta dal sito del Ministero degli Esteri https://www.esteri.it/it/diplomazia-culturale-e-diplomazia-scientifica/cultura/promozionelinguaitaliana/settimanalinguaitaliana/

