Roma ha molti impianti sportivi, ma non tutti parlano chiaro ai cittadini. È questa, in sintesi, la fotografia che emerge dal Rapporto ACoS sugli impianti sportivi di Roma Capitale, esito di un monitoraggio indipendente condotto tra novembre e dicembre 2025 su 34 strutture pubbliche, scelte con il metodo del mystery client.
Il quadro generale è definito dagli stessi estensori “complessivamente positivo”, ma solo a patto di accettare una lunga lista di criticità che riguardano trasparenza, accessibilità e rispetto delle norme. Criticità che, lette una dopo l’altra, raccontano un servizio pubblico ancora lontano da standard omogenei e pienamente garantiti.
La mappa dello sport: tanta offerta, ma distribuita male
A Roma si contano 2.258 impianti sportivi, divisi quasi a metà tra pubblico e privato. Il problema non è tanto il numero, quanto la distribuzione: alcuni Municipi superano quota 200 strutture, altri faticano ad arrivare a 100. Anche all’interno del Grande Raccordo Anulare emergono forti squilibri, con zone dense di impianti e altre sorprendentemente scoperte. Un dato che non sempre coincide con la percezione di qualità della vita nei quartieri, segnalando uno scollamento tra pianificazione e bisogni reali.
Segnaletica e accessibilità: il primo ostacolo è l’ingresso
Il 91% degli impianti espone correttamente il nome della struttura, ma solo nel 76% dei casi è chiaramente indicata la proprietà di Roma Capitale. Tradotto: un cittadino su quattro entra in un impianto pubblico che, a prima vista, sembra privato. Non un dettaglio, ma una violazione regolamentare.
Sul fronte dell’accessibilità, il 68% delle strutture risulta privo di barriere architettoniche all’ingresso. Un dato discreto, ma non sufficiente per un servizio che dovrebbe garantire l’accesso universale. A questo si aggiunge un 15% di impianti trovati chiusi durante le ispezioni, nonostante ripetuti tentativi in giorni e orari diversi.
Dentro gli impianti, l’informazione si perde
È all’interno che il sistema mostra le crepe più profonde. Il tariffario ufficiale di Roma Capitale è affisso solo nel 24% degli impianti. Ancora più grave: l’indicazione del Safeguarding officer, figura obbligatoria per la tutela dei minori e la prevenzione degli abusi, è assente nel 100% dei casi monitorati. L’affissione del Modello organizzativo 231 compare appena nel 7% delle strutture. Obblighi di legge, non optional.
Il personale, quando presente, si dimostra in larga parte disponibile, ma la qualità dell’informazione resta discontinua: in un terzo dei casi è stata giudicata poco chiara o superficiale.
Tariffe e servizi: poche infrazioni, molta confusione
Le tariffe, nella maggioranza dei casi, rispettano i limiti comunali. Solo un impianto su quindici applica prezzi superiori. Tuttavia, non mancano formule poco trasparenti, con pacchetti che sommano più attività rendendo difficile il confronto per l’utente.
L’offerta sportiva è ampia: nuoto, fitness, calcio, tennis e padel dominano la scena, con una buona presenza di attività agonistiche. I servizi accessori, però, non sono uniformi: area ristoro nel 66% dei casi, defibrillatori visibili solo nel 17%, cestini per la raccolta differenziata nel 41%.
Il punto fermo: niente gioco d’azzardo
Un dato fa notizia in positivo: in nessun impianto sono stati rilevati apparecchi per il gioco d’azzardo. Un segnale di legalità e tutela sociale che rappresenta una base solida su cui costruire il resto.
Il monitoraggio ACoS non racconta un sistema allo sbando, ma neppure un modello virtuoso. Racconta, piuttosto, un servizio pubblico che funziona “a macchia di leopardo”, dove il diritto allo sport è riconosciuto sulla carta ma spesso affidato alla buona volontà dei gestori. La richiesta finale è chiara: più controlli, standard minimi vincolanti e un monitoraggio permanente. Perché lo sport pubblico, a Roma, non può permettersi di restare senza bussola.
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