Sempre più spesso assistiamo basiti ad aggressioni al personale sanitario che sono il sinistro indicatore della grave rottura di qualcosa di importante nel rapporto cittadino-malato sanitari: se si aggredisce qualcuno preposto alla tua salvaguardia è l’assurdo dell’assurdo (ma questo non è un dualismo manicheo: perchè tutti possiamo passare improvvisamente da gestori ad utenti nello stesso tempo: da sano a malato; qualcosa che interessa prima o poi TUTTI). Lo Stato reagisce aumentando giustamente le pene, arresti immediati, ma senza risultati. Forse bisognerebbe analizzare le cause e cercare di ricostruire il rapporto rendendo ancora più partecipi i cittadini nei limiti del possibile ( al di la del vari consensi informati magari nati con i più buoni propositi ma di fatto ridotti ad pezzi di carta fatti firmare frettolosamente ad un ammalato solo ai fini per medico-legali). In una società fluida in cui tutto cambia con una velocità incredibile che non si riesce nemmeno a realizzare. Cambia il concetto di salute che non è più la semplice mancanza di malattia o di infermità ma uno stato di completo benessere benessere psicofisico; cambiano gli attori: il medico non è più quella autorità morale che la storia gli attribuiva da una millenaria tradizione; sono emerse nuove figure sanitarie con un aumento delle proprie competenze e autonomia. Il malato non è più un soggetto passivo, con una fiducia illimitata, quasi religiosa nei confronti nel medico. Il rapporto non è più così sperequato e paternalistico. Il malato rivendica il diritto alla perequazione, all’ascolto, ad ospedali trasparenti, alla possibilità di mantenere gli affetti familiari durante il ricovero, un ruolo centrale di protagonista non oggettuale, chiede una più attiva partecipazione alle scelte gestionali della propria salute. Anche la malattia non e’ più una semplice entità biologica ma una entità sociale dalle grosse ripercussioni economiche sociali e politiche. Molti malati si sono costituiti in associazioni, in cui militano attivamente, con forti motivazioni che li spingono ad una conoscenza approfondita della propria malattia, talvolta superiore a quella degli stessi medici. La medicina stessa si è spaccata in due: da un lato una medicina ipertecnologica superspecialistica, centrata sulla malattia (desease centred), molto scientifica e poco artistica, le cui prestazioni sono fornite da sconosciuti, e dalla quale le aspettative del malato raramente vanno al di la della semplice prestazione tecnologica. Dall’altro una medicina umanistica, centrata sul malato, molto più artistica, dal quale il paziente si aspetta un rapporto umano, l’ascolto, la demedicalizzazione, la rassicurazione, la parola.
Oramai ci si rivolge alla medicina in tutte le occasioni, e si pretende che risolva tutti i problemi quotidiani e i drammi planetari. Si da per scontato che essa legittimi le assenze dal lavoro, dalla scuola, benedica i matrimoni, e i decessi, o che occorra il suo beneficiare per la palestra, la piscina per un regime alimentare per abortire per la pillola. Ad essa spetta di stabilire in ogni occasione qual è la verità e il bene. Esiste un grosso problema di fondo nel rapporto paziente sanitario che se non risulta più che chiaro può dare origine a pericolosi malintesi: si confrontano frontalmente due soggetti sintonizzati su due diverse lunghezze d’onda: dalla razionalità del gestore all’irrazionalità più arcaica dell’utente la PAURA di fatto incocomunicabili tra loro (QUALCUNO DICEVA CHE NON ESISTE IL BENE E IL MALE MA SOLO IL MALE E LA PAURA: TROVATE UN UOMO CHE NON HA PAURA E NON SARA’ CAPACE DI FARE DEL MALE). Scriveva Goldman: nel mondo del malato le emozioni regnano sovrane; la paura è li ad un passo. La grande fragilità emotiva si basa in parte sull’illusione di essere invulnerabili. La malattia soprattutto se grave, manda in pezzi quest’illusione sferrando un duro attacco alla nostra rassicurante convinzione di un mondo tutto nostro protetto e sicuro. Improvvisamente ci sentiamo deboli, impotenti, e vulnerabili. Per un paziente ogni interazione con l’infermiera o il medico può rappresentare un occasione per ricevere informazioni rassicuranti conforto sollievo oppure se lo scambio è gestito in modo infelice può tradursi in un invito alla disperazione. Molto spesso però medici ed infermieri sono frettolosi ed indifferenti al disagio ed alla sofferenza dei malati. Talvolta l’ammalato o i parenti già in modalità paura, percepiscono una sperequazione tra le aspettative empatiche e quelle reali, poca disponibilità da parte del personale a fornire informazioni, magari per superlavoro, magari per medicina difensiva, magari per altro. In tutto questo cambiamento, non bisognerebbe mai dimenticare che il centro su cui ruota tutto il sistema salute in tutte le democrazie è l’ammalato; infatti è l’ammalato che fa di un edificio un ospedale; un edificio con medici infermieri lusso sfrenato non sarà mai un ospedale, al massimo un circolo di dopolavoro del comparto sanità. L’ammalato è l’elemento più fragile del sistema, non ha sindacati, non ha rivendicazioni salariali, non ha rivendicazioni corporativistiche, non ha problemi di carriera, velleità politiche o quant’altro: vuole solo guarire ad avere dignità dell’essere umano (nulla di nuovo: all’origine della nascita in occidente dei primi ospedali-xenocohi istituiti dopo il Concilio di Nicea del 325 d.C, fu sopratutto l’aspetto caritatevole verso i sofferenti pauperos et infermos; con l’evoluzioni successiva dopo il Concilio di Trento gli ospedali medioevali, divennero un’istituzione fondamentale, sia sempre come luoghi di carità, ma anche come luoghi di potere politico e finanziario). L’ospedale è il luogo di sofferenze e solitudine; molto si fa per la sofferenza pochissimo per la solitudine. Il tempo messo a a disposizione dei familiari negli ospedali infatti è assoutamente insufficiente, (malgrado l’obbligo di assistenza ai parenti in ospedale sia, non solo un dovere legale, ma anche un gesto di amore e solidarietà che rafforza i legami affettivi, creando un ambiente in cui la dignità e il rispetto per il paziente diventano priorità assolute nei momenti di massima vulnerabilità ed è fondamentale per il loro benessere psico-fisico e anche ai fini della loro guarigione) e ridotto ulteriormene dopo il Covid (motivato da lavoro, privacy, intralcio, motivi sanitari, malattie infettive, tutte motivazioni che cadono di fronte all’evidenza che, in strutture private super pagate, l’accesso è libero ai parenti e in grandi ospedali nella parte dei cosiddetti solventi, l’accesso è libero nelle altre parti è limitato). Un vecchio studio, compiuto in più di 20 anni su un campione di 37000 persone, ha dimostrato come la solitudine, la consapevolezza di non aver nessuno con cui condividere i propri sentimenti, con cui avere stretto contatto, raddoppia la possibilità di malattie e morte. Alla fine dell’articolo l’autore conclude che l’isolamento stesso “è significativo ai fini della mortalità come il fumo, l’ipertensione il colesterolo, l’obesità e la mancanza di attività fisica” il fumo aumenta il rischio di morte di un fattore 1.6 mentre l’isolamento di un fattore 2. Gli uomini sono colpiti più del doppio delle donne. In un altro studio di House è stato messo in evidenza che la semplice presenza di un’altra persona possa ridurre l’ansia e diminuire la sofferenza fisiologica di pazienti ricoverati nelle unità di terapia intensiva con la riduzione, non solo della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, ma anche con la riduzione della secrezione di acetilcolina, cortisolo e, catecolammine. Per il malato, il ricovero ospedaliero può essere una esperienza di grande solitudine ed impotenza, con l’innesco di sentimenti negativi come collera, ansia, depressione, solitudine, e pessimismo Non è più possibile considerare adeguata, una assistenza sanitaria che trascuri i sentimenti dei malati che stanno combattendo la loro battaglia contro una malattia grave o cronica, quanto meno, si renderebbe la medicina più umana e forse vi potrebbe essere anche un risparmio economico. La compassione, scrisse un malato ad un chirurgo, non è semplice imposizioni delle mani: è buona passi medica. Il fatto di avere medici ed infermieri empatici, in sintonia con i pazienti,capaci di ascoltare e farsi ascoltare comporta un altro vantaggio quello cioè di alimentare una “assistenza centrata sulla relazione” riconoscere che il rapporto medico paziente è esso stesso un fattore significativo. BALINT DICEVA CHE IL MEDICO STESSO E’ UN FARMACO CON INDICAZIONI ED EFFETTI COLLATERALI. Una medicina più umana potrebbe avere il vantaggio in termini di profitto facendo guarire i pazienti più velocemente in uno studio condotto al Mt.Sinai School of Medicine di New York e alla Nortwestern University i soggetti anziani con frattura all’anca che ricevevano una terapia antidepressiva lasciavano l’ospedale in media 2 giorno prima degli altri con un risparmio economico per 100 pazienti di 97361 dollari di spese sanitarie. (Strain,”Cost offset”). Alla luce di queste esperienze, alcuni ospedali americani hanno incominciato a progettare le camere per la degenza in modo tale che, i familiari possano stare con i pazienti cucinando per loro e accudendoli come se stessero a casa loro, un passo in avanti verso una situazione che paradossalmente, è pratica comune verso tutto il terzo mondo. Scriveva Papa Benedetto XVI: Per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre innanzitutto competenza professionale… ma da sola non basta… Si tratta di esseri umani e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore. Forse dovremmo far tesoro dell’esperienza del grande Psicoanalista e filosofo francese J. B. Pontalis: Niente sul chirurgo che si congratula per il successo dell’operazione, mentre ci si sente ridotti a un misero corpo che si vergogna di non essere niente altro che quello. Niente sull’infermiera di turno di notte, che si è chiamata dieci volte disperatamente, e che apre bruscamente la vostra porta, l’aria stizzita, dopo che la si è sentita scoppiare dal ridere con le sue colleghe nel corridoio… niente sulla visita lampo del medico accompagnato da un gruppetto di praticanti che apprendono il vostro nome dalla cartella attaccata in fondo al letto” Scriveva Bensaid. I medici non dovrebbero mai dimenticare che le certezze della scienza medica non sono nulla più che certezze. Non sono la verità: tutt’al più delle verità solo parziali e provvisorie. È un fatto comune per ogni medico, infatti, la frustrante esperienza derivata dal dover varie volte rettificare, nel corso della vita, le certezze sulle quali fondava il suo operato. Medice cura te ipsum che dapprima è divenuta simbolica per Prometeo, poi in tutto l’occidente, del Christus patiens, archetipo del Redentore che porta su di sé la sofferenza; in questo senso anche il medico diventa un guaritore ferito. Chirone, il centauro che insegnò a Esculapio l’arte, era affetto da piaghe inguaribili. A Babilonia c’era una dea cane con due nomi, Guila era la morte, Labartu era la guarigione. L’immagine mitologica del guaritore ferito è molto diffusa e simboleggia che dentro ogni paziente c’è un medico e che dentro ogni medico esiste un paziente e queste due persone, per raggiungere la consapevolezza e la solidarietà, non possono operare l’uno all’insaputa dell’altro, ma devono necessariamente dialogare tra loro “per il bene del medico e del paziente”.
Sono le riflessioni di un medico, il dottor Luigi Galieti