Il 24 settembre comincerà la prima edizione del “Festival della Sapienza”. L’evento si svolgerà all’interno della città universitaria di Sapienza Università di Roma e nel Nuovo Teatro Ateneo, struttura che conta 160 posti in platea e 36 in galleria, e durerà fino al 26 settembre: tre giorni “per interrogare il presente a partire dalle sue ferite” – così si legge nella brochure di presentazione.
Il titolo di quest’anno è: “La dignità inquieta”. Il nucleo tematico è, dunque, la dignità, con tutti i problemi e le minacce che si trova ad affrontare: dalla violenza alla discriminazione. La forma scelta per affrontare il tema è quella teatrale, inteso come “luogo della prova – instabile, collettiva, irripetibile”. La brochure sottolinea che il teatro ha la capacità di creare una comunità che si interroga su ciò che più ci riguarda sia come individui sia a livello collettivo. Il festival, continua la presentazione, si ispira al messaggio umanitario e pacifista di Martin Luther King, e rappresenta solo la prima tappa di un percorso dedicato al tema dei diritti civili che proseguirà con molte iniziative.
L’evento si aprirà con i saluti della rettrice Antonella Polimeni ed ospiterà diverse rappresentazioni teatrali e performance. La prima, “Ventimila leghe sotto i mari”, ispirata al romanzo di Jules Verne pubblicato tra il 1869 e il 1870, viene descritta come “un’avventura multisensoriale che interroga il nostro rapporto con la natura, la tecnica e la dignità”. Sarà poi la volta di “Sulle tracce di Majorana”, un “percorso itinerante all’interno della città universitaria” che tratta della scomparsa del fisico Ettore Majorana, uno dei ragazzi di Via Panisperna, sulla cui sparizione, avvenuta nel 1938, anche Leonardo Sciascia scrisse un libro. Ancora, tra le opere in programma, ci sono “Donne maledette”, che inscena un processo a sei donne, “le streghe di Allone”; “Urla silenziose”, sulla vita delle persone sorde in Italia; “Il bianco e la ferita”, definita “una favola civile e materica”; “Il monsone”, uno spettacolo che ha il patrocinio di Amnesty International Italia e tratta della vicenda di un ragazzo vittima del caporalato; “Ogni stupida cosa”, che tratta della violenza della guerra; “L’eccezione e la regola”, tratta dall’opera di Bertolt Brecht; “14.610”, descritta come “l’elogio di ogni singolo giorno di vita”.
Già solo leggendo la locandina, ci si rende conto che ad opere incentrate su vicende più schiettamente contemporanee si affiancano episodi e temi del passato letterario e culturale, sia pure recente. Questa mescolanza di passato e presente è uno dei caratteri preponderanti della cultura attuale. Due, astrattamente, le conclusioni possibili: che l’arco storico iniziato intorno al diciannovesimo secolo non si è davvero, nonostante che periodicamente sembri così, ancora chiuso, o che invece la natura umana sia nei millenni sempre la stessa e l’analogia nei fatti del mondo dipenda dall’identità, al fondo, dei loro autori. Il secondo approccio ha un nocciolo di verità, ma è vago; il primo, come ogni tesi storiografica, si espone a critiche e confutazioni. Ma la conseguenza, in ogni caso, è che per affrontare il presente bisogna allargare lo sguardo nel tempo: soltanto l’analisi del passato ci permette di inquadrare, discernere e comprendere quello che viviamo. Accanto alla riflessione storica e in senso ampio scientifica, una delle forme di rappresentazione del proprio tempo più efficaci, benché spesso più imprecisa e generica, è l’arte, di cui il teatro è stato in molte culture tra le massime espressioni, assommando poesia, canto, recitazione, oratoria, mimica, danza – corpo, dunque, e mente.
Proprio sulla scelta del teatro, in un’epoca segnata da forme espressive digitali, cioè dematerializzate, a distanza ed asincrone, è opportuno riflettere. Una trentina d’anni fa la tendenza era di guardare con ottimismo a un futuro modellato dalla tecnologia e da internet. Col tempo, le cose sono cambiate: oggi lo spettro delle opinioni annovera cauti realismi, pessimismi più o meno marcati fino agli estremi minoritari del neoluddismo, anche entusiasmi ma certo non, se non in minima parte e riadattate, le vecchie grandi speranze. La pandemia, costringendoci a ricorrere temporaneamente al digitale per tanti fondamentali aspetti della nostra vita, dalla scuola al lavoro, ha dato impulso al dibattito. Ci chiediamo, in breve: la vita digitale è vera vita? Internet può veramente sostituire la realtà materiale? Si pensi soltanto, per rimanere in ambito universitario, alla questione della videolezioni, che per certi versi riproduce in piccolo le caratteristiche del problema.
In tal senso, il teatro sembra – è vero – tutt’altro che in linea con lo sviluppo tecnologico: è un’esperienza che avviene in un certo luogo ad una certa ora e ci cala in mezzo a una platea con cui condividiamo tempo, spazio e sensazioni. Più dei cinematografi, poi, ha che ci mette di fronte ad altre persone, le quali parlano a noi qui ed ora. Il teatro, chiaramente, è molto simile alla vita, com’è stata tradizionalmente intesa ed esperita. Ma proprio questo lo espone a varie difficoltà. Per esempio a dover comunicare a dei cervelli sempre più abituati a stimoli continui dell’attenzione, che nella maggior parte dei casi non possono essere uguagliati dai ritmi del teatro, per dinamico che sia. Certo, si può parzialmente rimediare con giochi di luce e di suoni, raffinate scenografie e proiezioni; ma è evidente che non può essere quella l’essenza di uno spettacolo dal vivo, perché altrimenti sorge spontanea la domanda: perché, allora, non un film? E’ inevitabile notare che la riuscita di una pièce dipende oggi molto dalla buona volontà degli spettatori: gli attori e i registi mandano un messaggio, ma serve che il destinatario si presti alla visione e all’ascolto, che si convinca di non star perdendo il suo tempo a vivere l’esperienza in carne ed ossa piuttosto che dietro uno schermo.
- Leandro Stroppa
Foto tratta dal sito ufficiale della Sapienza, al link https://www.uniroma1.it/it/pagina/governo

